OMELIA – Messa Crismale 12 aprile 2017

Isaia 61, 1-3a.6a.8b-9; Salmo 88; Apocalisse 1, 5-8; Luca 4, 16-21
12-04-2017

Il nostro sguardo interiore, personale e comunitario è rivolto a Cristo nella sua unzione
spirituale e allo stesso tempo in Cristo rispecchiamo la nostra unzione ecclesiale. Guardiamo
all’Unto, il Cristo, per essere veramente gli unti, i cristiani.
Stiamo vivendo nel nostro piano pastorale la riscoperta del sacramento della Confermazione,
che è mistero di unzione, unzione personale e ecclesiale, perché la Chiesa cresce per l’unzione
dei suoi figli, per la maturità di fede, per la perfezione spirituale di tutti loro. L’unzione ha poi
effetti diversi, ne prendiamo in considerazione uno in particolare che Gesù stesso, rileggendo
per sé il rotolo di Isaia, vede compiersi: “Mi ha mandato a portare il lieto annuncio ai miseri”.
Vogliamo considerare l’unzione di Cristo che porta il Vangelo di salvezza ai miseri, che devono
riscattarsi, ai poveri, che devono scegliere la via della povertà, a ogni uomo, che deve seguirlo
nella via della povertà. Anche noi, come Chiesa, sentiamo l’effetto di questa unzione, che ci
invia a portare il lieto annuncio ai miseri. Grazie a questo annuncio del Vangelo, i poveri
potranno vedere che noi siamo la stirpe benedetta dal Signore, quindi all’annuncio deve
seguire la testimonianza. Essa è considerata come un segnale permanente dell’annuncio che
noi, unti di Spirito Santo, facciamo risuonare nella Chiesa e nel mondo: tutti vedranno la
nostra testimonianza. Cosa vedranno in ognuno di noi, nella nostra Chiesa? Vedranno
l’unzione che ci ha costituito nella nostra regalità, nella nostra profezia, nel nostro sacerdozio.
È questo che deve essere visto e testimoniato. Qui rileggiamo le tre affermazioni forti del
profeta Isaia: “Una corona invece della cenere, olio di letizia invece dell’abito da lutto, veste di
lode invece di uno spirito mesto”. In queste tre espressioni ritroviamo la nostra unzione.
Una corona invece della cenere: unzione regale. La nostra corona è l’aver acquistato una
dignità dopo il peccato nello splendore della gloria di figli di Dio, avendo sperimentato anche la
cenere della miseria e del pentimento. Tutto questo si compie nel Battesimo, ma tutto questo
si rinnova continuamente nella nostra vita; non a caso abbiamo iniziato la quaresima con la
cenere sul capo, perché vogliamo arrivare alla notte di Pasqua sentendo sul nostro capo la
corona dei figli di Dio, la corona della nostra regalità.
Olio di letizia invece dell’abito da lutto: unzione profetica. Il profeta ha un annuncio che in
qualche modo nasconde o proclama apertamente la gioia. Noi non nascondiamo di avere un
annuncio che è di per sé gioioso, perché noi abbiamo il Vangelo come contenuto del nostro
annuncio e il Vangelo ha come cuore il mistero di Cristo crocifisso e risorto. La nostra profezia
è un parlare al presente, non è un parlare al passato, né solo guardando al futuro. Nell’oggi il
Vangelo è attivo, riscatta anche il passato e fa guardare con fiducia verso il futuro. La nostra
profezia è per l’oggi, non possiamo essere né profeti di nostalgia, né profeti di sventura, come
diceva il grande papa San Giovanni XXIII. Noi siamo profeti del Vangelo, che, proclamato, oggi
si compie in mezzo a noi. Per quest’olio di letizia siamo profeti e non ci appartiene l’abito da
lutto. L’abito da lutto è per i nostalgici e per i profeti di sventura, ma per quelli che credono
nella potenza del Vangelo, non esiste abito da lutto. Tante volte ci conviene indossare
quest’abito, perché, in quell’ipocrita mestizia nascondiamo le nostre miserie, che sono
peccato. Non le nostre miserie pronte a maturare nella scelta di povertà e nella sequela di
Cristo, ma quelle miserie che desiderano putrefarsi. Ci illudiamo di coprirle con abiti da lutto
per essere compianti e consolati, ma non sono assolutamente la trasparenza dell’unzione
profetica, la luminosità dell’olio sulla carne viva, che fa risplendere la bellezza della nostra
umanità, della nostra appartenenza a Cristo. L’abito da lutto copre lo splendore della nostra
umanità, a cui l’olio di letizia continuamente ci rinnova.
L’olio del profeta, del profeta dell’oggi, togliendo l’abito da lutto, fa indossare la veste della
lode: unzione sacerdotale. L’unzione sacerdotale è di quelli che ormai sono rivestiti di Cristo e
di quelli che offrono a Cristo sacrifici spirituali a lui graditi, perciò chi ha l’abito sacerdotale
della lode e del ringraziamento, l’abito dell’Eucaristia non potrà più avere uno spirito mesto,
perché questo è come lo spirito di quegli animali, che tristi, venivano sacrificati dai sommi
sacerdoti nell’Antico Testamento e in ogni altra religione; poveri animali inutilmente
sacrificati, poveri capri che non potevano assumere su di sé i peccati dell’uomo, perché essi
sono senza coscienza. La veste di lode del nostro essere tutti sacerdoti di Cristo ci fa passare
dallo spirito mesto allo spirito contrito, secondo il salmo 50, commentato da sant’Agostino, e
da spirito contrito a sacrificio gradito a Dio, e, in quanto tale, diventa un profumo di lode.
Questo è il vero sacerdote, che è tale per il battesimo e per la sua ordinazione. Noi siamo un
popolo sacerdotale, perché ognuno di noi ha questa comunione, ha quest’olio e indossa
questa veste di lode.
Il salmo responsoriale ci fa compiere un passaggio bello: “Ho trovato Davide mio servo”. Ha
trovato Davide davanti a lui per caso? Sembrerebbe quasi che, passeggiando, Dio lo ha trovato
e ne ha fatto re di un popolo ben compatto nella sua istituzione morale e religiosa.
Davide, invece, è stato scelto e sappiamo bene con quanta precisione fu scelto, perché Dio
guarda il cuore e non l’apparenza. Chi guarda l’apparenza, il primo che trova lo fa re, ma chi
guarda il cuore, non si ferma al primo che incontra.
Inveni David, dice il testo latino, perché il popolo è un’invenzione di Dio. Prendiamo
letteralmente questo verbo latino, invenio, nel senso di imbattersi, ma anche nel senso di
imbattersi in una realtà cercata. Noi siamo un’invenzione di Dio e mi permetto di dire, noi
Arcidiocesi di Sant’Angelo dei Lombardi-Conza-Nusco-Bisaccia, così come siamo stati costituiti
trent’anni fa, non ci sentiamo frutto del caso, siamo un’invenzione di Dio e dobbiamo dirlo a
tutti, non sono quattro antiche diocesi messe insieme per caso, o sette antiche diocesi unite
perché troppo piccole, noi crediamo che siamo stati costituiti come invenzione di Dio.
Sentiamoci come Davide e il suo popolo un’invenzione di Dio.
L’invenzione di Dio ha una chiamata, ha una grazia che ci sorregge, non manca occasione per
farci sentire che ci ama. Essere un’invenzione abbandonata, perché non riuscita, non è
consolante. Noi siamo l’invenzione riuscita e amata e ci sentiamo amati da Dio così come
siamo. Siamo un popolo costituito e amato da Dio. Questo ce lo ricorda ancora il salmo: “La
mia fedeltà e il mio amore saranno con lui e nel mio nome s’innalzerà la sua fronte” e poi
l’Apocalisse ci ricorda che è quest’amore che ci ha liberati, che ci ha costituito come popolo.
Ci avviamo verso la Visita Pastorale, facendo nostre queste due intenzioni fondamentali:
ognuno di noi riscopra l’essere affascinati da Cristo e tutti insieme come popolo santo
sentiamoci amati, sorretti e guidati da Dio.
Carissimi, in questo amore si colloca anche la nostra relazione presbiterale. Un pensiero al
presbiterio è necessario in questo giorno, ma si deve collocare nell’orizzonte e nell’ottica
dell’amore di Dio per il suo popolo. Sento, e lo affermo come padre e fratello, di essere amato
da voi presbiteri, perché in ogni rapporto personale sento che mi amate. Spero che anche voi
sentiate che vi amo. Però se mi amate, questo è la prova che sentite il mio amore per voi.
Voglio dare un colore a questo rapporto con voi, perché non è soltanto un rapporto
sentimentale. Non ci fermiamo sulle emozioni, quelle sono del momento. Il colore che
dell’amore tra presbiterio e vescovo è tutto racchiuso nella Parola che insieme ascoltiamo e
annunziamo. C’è un amore che ci scambiamo per quella parola di Dio che insieme ascoltiamo e
proclamiamo al nostro popolo. In questo tempo ci stiamo preoccupando di come annunciare
la Parola in situazioni anche difficili e delicate, conservando l’unità. Si tratta del cammino del
discernimento e dell’ascolto che stiamo facendo in questo anno con l’aiuto dei padri gesuiti,
perché sappiamo che insieme annunciamo la Parola e dobbiamo essere concordi
nell’annuncio, dobbiamo annunciare amandoci, per amare le persone a cui noi portiamo la
Parola. Stiamo crescendo nell’amore grazie a questo sforzo di accogliere insieme la Parola e di
annunciarla, non monocorde, ma pluricorde nell’unico Spirito. Non annunciamo la Parola
monocorde, è un annuncio pluricorde, per quanti sono i nostri i sacerdoti nella Chiesa in un
solo Spirito. A questo riguardo, dal Vangelo che abbiamo ascoltato, Gesù fa sua la pagina di
Isaia, dove mi ritrovo io e dove ci ritroviamo noi in questo amore per la Parola? Io mi rivedo, e
forse è lo stesso anche per voi, in quell’inserviente che offre il rotolo perché sia letto, e
l’inserviente a cui viene consegnato il rotolo affinché venga riavvolto. Noi siamo
quell’inserviente. Però mi sono chiesto: dopo che Gesù ha detto “Oggi si è compiuta questa
Scrittura che voi avete ascoltato”, che cosa ha fatto l’inserviente? Se si è compiuta, avrebbe
dovuto gettare il rotolo, lo ha fatto? Noi siamo come quell’inserviente, offriamo e raccogliamo
il rotolo, ma dalla Pasqua quell’oggi è attivo, per cui il nostro conservare il rotolo non è da
bibliotecari. Noi abbiamo un rotolo adesso che è fuoco, vita. Sulle pagine della Sacra Scrittura
non c’è scritto solo ciò che è avvenuto, ma c’è scritto ciò che avviene e quanto è scritto, nel
fuoco dello Spirito, è la nostra vita; noi siamo l’inserviente e al momento opportuno dobbiamo
prendere quel rotolo, che scotta, e annunciarlo ancora nella vita della Chiesa. Non c’è più
parola da biblioteca, non abbiamo più una gennizzah dove mettere rotoli vecchi, noi siamo la
Chiesa viva e ogni volta il rotolo della Parola è costituito da ciò che ha detto e dice, ha
compiuto e compie. Ogni rotolo è nell’oggi, non c’è più un rotolo nell’armadio, ogni rotolo è
l’oggi della nostra vita. Sento di avere in mano tre rotoli in particolare: uno per voi presbiteri, il
secondo per la nostra Chiesa insieme al presbiterio e il terzo per il mondo, in cui la Parola in
tanti modi risuona, rimbalza e brucia. Invito anche voi a considerare questi tre rotoli, che
continuamente dobbiamo riaprire e leggere, riaprire e vivere, perché è un oggi che ci prende e
non possiamo più tenere chiusa o nascosta nessuna parola che il Signore ci ha consegnato.
Con queste tre dimensioni: il nostro presbiterio, la nostra Chiesa, il mondo che ci circonda.
Il nostro presbiterio: voglio riprendere l’antica immagine di Sant’Ignazio di Antiochia, la lira e le
corde. Il vescovo è un pezzo di legno concavo su cui ci sono le corde, ma, cari presbiteri, lo dico
di cuore, non sta a me stringere o allentare le corde. Non lo posso fare io, perché potrei far
soffrire voi e la santa Chiesa. Pieno di Spirito Santo come voi, chiedo che sia lo Spirito a
tendere o allentare le corde della nostra vita, perché la melodia da proporre al nostro popolo
sia una melodia evangelica. Posso fare da cassa di risonanza, tenervi uniti, perché siete tutti
legati su questo legno, che è la mia persona, certo, ma non stringerò né allenterò mai le vostre
corde. Come ho invocato lo Spirito, perché scendesse su di voi nel dono del presbiterato, e
immedesimandomi nei miei predecessori, invoco lo Spirito continuamente, perché ognuno,
oltre che rimanere al suo posto sulla lira, abbia la tensione giusta, la tensione spirituale, la
tensione per non essere una nota alta, non essere una nota bassa, non essere una nota
stonata, ma una nota in armonia. Chi è nel coro sa che per capire se si è nel posto giusto, basta
avere un orecchio agli altri e un orecchio alla propria voce. Se, invece, tutte e due le orecchie
sono alla propria voce, siamo tutti solisti. Un orecchio alla nostra voce, un orecchio alla voce
della Chiesa, perché quest’ultimo ci rende intonati, ma anche l’orecchio a noi stessi è
importante, perché lo Spirito ci parla dentro e fuori, ci parla nella coscienza e ci parla nella
Chiesa. Quindi teniamo due orecchi aperti, uno al nostro cuore, uno al sentire della Chiesa, in
questo modo l’annuncio per cui siamo stati unti sarà una melodia che ancora affascina.
Amen.